Conversazione con l’illustratore Francesco Poroli
Ci sono artisti che trasformano il proprio mestiere in un ponte: tra storie lontane e vite quotidiane, tra la complessità del mondo e la semplicità di un gesto visivo. Francesco Poroli appartiene a questa categoria. Illustratore da oltre quindici anni, autore di progetti editoriali, culturali e sociali, voce influente di una scena creativa che grazie a lui e all’associazione Illustri si è fatta più riconoscibile e unita, Poroli ha dedicato ad ActionAid due manifesti illustrati pensati per sostenere i progetti umanitari dell’organizzazione.

Il suo modo di raccontare rivela una verità semplice: il disegno non è mai solo un disegno. È un linguaggio che attraversa i confini, uno sguardo che mette il mondo a fuoco, un esercizio di responsabilità.
Questa intervista prova a restituire la profondità di quella conversazione: una riflessione che parla di creatività, di educazione, di empowerment, di restituzione. E di come un’immagine possa diventare un luogo di incontro.
Chi sei, Francesco? Cosa ti definisce come persona e come illustratore?
Sono Francesco Poroli, e faccio l’illustratore da una quindicina d’anni. Prima ho fatto il graphic designer – e anche tante altre cose – ma in realtà ho sempre disegnato, anche quando non era un mestiere. Disegnare è sempre stata una costante, un modo per leggere quello che mi succede intorno.
Mi piace lavorare su progetti che abbiano dentro una storia. Non mi interessa l’estetica fine a sé stessa: fare una cosa “bella e basta” mi annoia abbastanza presto. Preferisco quando un’immagine diventa un pezzo di racconto, quando può parlare a un pubblico ampio, quando riesce a muovere qualcosa. Le immagini hanno questa forza: attraversano lingue, paesi, visioni, senza bisogno di troppa mediazione. È un linguaggio orizzontale, democratico.
Le ispirazioni, poi, arrivano da ovunque: libri, canzoni, conversazioni, perfino uno spritz. Se tieni la testa aperta, il mondo entra. E ogni persona che incontri ha una storia da dire.
Illustri è una parte centrale del tuo percorso. Cosa rappresenta?
Illustri è un festival, un’associazione culturale, ma soprattutto una comunità. Quando è nata nel 2013, la scena dell’illustrazione italiana era ricchissima di talento ma poco visibile. Gli illustratori sono creature un po’ selvatiche: stanno chiusi nei loro studi, lavorano soli, parlano poco tra loro. Illustri ha cambiato questo paradigma, creando un luogo dove ci si incontra e si cresce insieme.
Negli anni abbiamo coinvolto centinaia di illustratori, da nomi affermati a talenti emergenti. E poi c’è la parte che amo di più: Illustri for Good, un contenitore di progetti nati per raccogliere fondi destinati a cause sociali. Abbiamo sostenuto associazioni che lavorano sull’inserimento lavorativo, sulla protezione dei migranti lungo la rotta balcanica, sull’educazione all’affettività nelle scuole.
È la parte meno glamour, lontana dalle mostre scintillanti nei luoghi pazzeschi di Vicenza. Ma è la più significativa, perché dimostra che anche un disegnino può fare qualcosa di buono.
Anche un disegnino può fare cose incredibili.
Per te la creatività ha una dimensione politica?
Sì, e credo sia inevitabile. Se fai questo lavoro, le immagini che produci raccontano una storia piuttosto che un’altra: è una responsabilità, piccola ma reale. Non nel senso dei grandi proclami, ma nello scegliere quali temi sostenere, quali voci amplificare, quali valori allineare alla tua sensibilità.
Le collaborazioni che facciamo con Illustri nascono proprio dal desiderio di usare il nostro linguaggio per raccontare cose che per noi hanno un senso.
Hai delle routine creative?
Non davvero. Sono un abitudinario in molte cose – il caffè sempre nello stesso modo, i libri ordinati sugli scaffali della libreria per colore – ma non nella creatività.
Non sono il tipo che aspetta la folgorazione sotto l’albero. Credo nella pratica quotidiana: l’ispirazione esiste, ma devi farti trovare al lavoro.
Negli ultimi anni ho lavorato ovunque: treni, uffici improbabili, luoghi di passaggio. Questo ti obbliga ad accettare che l’idea arrivi dove sei, non dove vorresti essere. Puoi essere soddisfatto al 60% di un lavoro, sapendo che ne arriverà un altro su cui provare a fare meglio. È una cosa che impari con l’età, smettendo di inseguire una perfezione che è solo una chimera.
Col tempo capisci anche una cosa: il disegno perfetto non esiste.

Il manifesto per ActionAid: dove nasce un’immagine
Come è nata l’idea dei poster che hai realizzato?
È nata ascoltando, come sempre. Ho iniziato dai valori di ActionAid, da ciò che l’associazione fa e da quello che ho sentito più vicino a me. Il primo tema emerso è stato l’empowerment femminile: un argomento che vivo ogni giorno in casa, con una figlia di tredici anni e un figlio di sedici. È un tema identitario per me, qualcosa su cui sento di avere un dovere, un impegno da padre e da uomo.
Il secondo tema è l’educazione. Lo ripeto così spesso ai miei figli che sono certo mi ascoltino solo a metà, ma continuo a dirlo: lo studio – per quanto possa sembrare distante o inutile, soprattutto al liceo classico – è uno degli strumenti più potenti che abbiamo per cambiare le nostre vite e, se vogliamo, anche quelle degli altri. Da lì è partito tutto.
Ora che li vedi stampati, cosa speri che attivino nelle persone?
Una cosa semplice: un pensiero. Anche veloce, anche minimo.
Una delle cose più belle del mio mestiere è che, quando un’immagine diventa pubblica, non è più mia. Chi la guarda ci mette sopra la propria storia, i propri filtri, la propria esperienza. Qualcuno la amerà, qualcuno non la guarderà nemmeno, qualcuno la odierà. È normale.
Ma se anche in tre persone riuscirà a far scattare una riflessione, un dubbio, una pausa di senso, allora avrà fatto il suo lavoro.
Hai pensato al fatto che il poster sostiene i progetti di ActionAid nel Sud globale?
Anche se i soggetti che ho illustrato non parlano direttamente di quei contesti, sapevo che sarebbero serviti a raccogliere fondi per cause importanti.
E qui entra una consapevolezza personale: io sono un privilegiato. Maschio, bianco, etero, abile, vivo a Milano… ho avuto fortune che non ho fatto nulla per meritarmi. Per questo sento un tema di restituzione.
Se il mio lavoro può contribuire anche minimamente a migliorare la vita di persone che vivono realtà lontane dalla mia, è difficile dire di no. È una bella responsabilità, ma anche una grande opportunità.

Un messaggio da allegare al manifesto
Se potessi aggiungere un biglietto firmato da te a ogni poster scelto, cosa diresti?
Direi una cosa legata a una discussione recente con un amico. Oggi, volenti o nolenti, abbiamo tutti una piccola piattaforma: social, relazioni, conversazioni, qualsiasi spazio in cui esprimiamo un’opinione. Una volta chi inveiva al bar veniva guardato male; oggi ha un pubblico. E vale anche il contrario: abbiamo la possibilità di spingere le cause e le persone migliori.
Questo poster è il mio modo di prendere posizione.
Direi: ti auguro di trovare il tuo modo per farlo.

Sguardi futuri
In cosa sei impegnato ora?
Da poco ho concluso un grande progetto con Gallerie d’Italia: ci hanno chiesto di ripensare il percorso espositivo della loro collezione di ceramiche greche, attiche e magno-greche. Due-mila-cinquecento vasi. Me li sono studiati tutti e ho scelto quattro storie – Ajace, Elena, Eros e Dioniso – affidandole a fumettiste e fumettisti per rileggerle con un linguaggio contemporaneo.
È stato bellissimo vedere come l’illustrazione possa diventare un mediatore culturale, avvicinando persone nuove a ciò che chiamiamo “cultura alta”.
Sui prossimi progetti non posso dire molto, ma in Illustri bolle parecchio. Presto se ne saprà di più.
Che consiglio daresti agli illustratori che collaboreranno con ActionAid dopo di te?
Di godersi la libertà. Qui non ci sono vincoli stilistici, non ci sono paletti: è un foglio bianco vero, che può fare paura ma è infinitamente divertente. È un’occasione per interpretare un tema a modo proprio, senza filtri.