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Il progetto Albania e il costo della disumanizzazione


“I centri in Albania funzioneranno”. Dopo un anno la premier usa lo stesso slogan, ma ammettendo la possibilità di danno erariale a seguito dell’esposto di ActionAid alla Corte dei Conti.

Aggiunge inoltre che “funzioneranno grazie ai giudici con un anno e mezzo di ritardo […] non è al governo che va mossa la contestazione”.

La realizzazione di Cpr oltre il confine ci riguarda e rende evidente l’accelerazione nella repressione della libertà di movimento e nella criminalizzazione delle persone migranti, il cui strumento principale diventa la privazione della libertà personale.

In un quadro caratterizzato da ostacoli e battute d’arresto, aggirati a colpi di decreti d’urgenza, non abbiamo fatto altro che seguire il denaro. Farlo ci ha portato proprio al governo e a politiche inumane, estremamente critiche da un punto di vista legale e completamente irrazionali da un punto di vista economico, con costi esorbitanti e ingiustificabili. Grazie ai dati ottenuti nell’ambito del progetto Trattenuti, abbiamo segnalato all’Autorità Nazionale Anticorruzione (ANAC) possibili irregolarità nell’assegnazione dell’appalto per la gestione dei centri albanesi e depositato un dettagliato esposto alla procura della Corte dei Conti.

Affrontare l’esborso economico determinato da questo “modello” di detenzione off-shore rischia di apparire riduttivo, ma il principio di efficienza dell’azione amministrativa va accompagnato anche dal principio di proporzionalità. Se la detenzione amministrativa rispondesse al principio di efficienza della pubblica amministrazione, potremmo accettarla? Se un giorno di privazione della libertà personale fuori dai confini europei costasse un solo euro, potremmo ritenerci soddisfatti?  Quello economico, per quanto evidentemente abnorme e sproporzionato rispetto agli obiettivi che si pone il governo, è solo uno dei costi. Il costo umano e di civiltà giuridica di una simile sperimentazione, simbolica e contabile allo stesso momento, è infatti troppo alto, sproporzionato e ingiustificabile.

Le cronache da Gjadër riproducono in senso peggiorativo quanto il sistema detentivo per stranieri su suolo nazionale ci racconta dalla sua istituzione: celle isolate, caldo estremo, cibo passato sotto le porte, 95 atti di autolesionismo dal cambio d’uso delle strutture di fine marzo a fine ottobre 2025. Hamid Radoui si è ucciso dopo un mese per la paura di tornarci.

Dopo un anno di operatività a singhiozzo dell’esperimento albanese è fondamentale affrontarne il significato, e una delle tracce è quella del denaro. Soldi pubblici sottratti alla salute, alla giustizia e a welfare e servizi, ma anche a fondi per la gestione di emergenze. 17 milioni di euro dal Fondo esigenze indifferibili (calamità naturali e terremoti), lì dove la Rete Sismica Nazionale ha registrato in Italia, nel 2024, un terremoto ogni 30 minuti, con un incremento di due terremoti in più al giorno rispetto allo scorso anno. 13 milioni di taglio dal Ministero dell’Università e della Ricerca, mentre nel 2025 l’Associazione dei dottorandi italiani parla della “più urgente crisi lavorativa del paese”, in un sistema che si fonda su precariato e contratti a termine. E così, di questo passo, per la “grande opera” di detenzione fuori dai confini nazionali, sono tagliati oltre 30 milioni dai principali ministeri.

Arrivando ad accettare di deportare e internare persone in centri fuori dai confini nazionali, il progetto albanese è parte di una strategia di graduale normalizzazione di una realtà fino a pochi anni fa impensabile (o quanto meno impossibile da sostenere apertamente e pubblicamente da parte di esponenti di governo, senza conseguenza alcuna), fatta di campi oltre confine, colpevolizzazione del diverso e un’eco evidente di una rinnovata spinta coloniale. Si è così alzata l’asticella dell’accettabile, piegato il diritto e, attraverso condotte illegittime, realizzato quanto una volta si considerava irrealizzabile e inaccettabile.

I fatti e i documenti raccolti segnalano violazioni dei principi costituzionali di buon andamento, economicità e proporzionalità. L’ostinazione nel tenere in vita un progetto inefficace e giuridicamente inconsistente, attraverso nuovi stanziamenti per gli allestimenti, continui cambi di regole e spostamenti di competenze, ha generato una perdita per l’erario che non può essere archiviata come un mero “errore tecnico”. Centrale è infatti la consapevolezza con cui l’Esecutivo ha portato avanti il “progetto Albania”, accettando il concreto rischio di sprecare denaro pubblico. Si è dato vita ad uno stato di eccezione permanente facendone un metodo, con i costi a rappresentare non un imprevisto, ma l’esito atteso di una strategia politica, in cui il linguaggio dell’emergenza giustifica ogni deroga: di legge, di trasparenza, di logica. L’emblema di una deroga ai principi costituzionali e democratici.

Se il denaro sperperato ci dà la misura di quanto siamo disposti ad accettare nuovi modelli di società in cui il diritto “conta fino a un certo punto”, la nostra prospettiva è altrettanto lontana dalla volontà di fare uno scoop sullo “scandalo della spesa folle per pochissimi rimpatri”. Con l’esposto alla Corte dei Conti e la segnalazione all’Anac intendiamo praticare la trasparenza, come dice la legge  “allo scopo di tutelare i diritti dei cittadini, promuovere la partecipazione […] e favorire forme diffuse di controllo sul perseguimento delle funzioni istituzionali e sull’utilizzo delle risorse pubbliche”. E in questo modo, riappropriarci del ruolo della società civile a di uno spazio di cittadinanza attiva costantemente e sistematicamente erosi. Mettere in fila le anomalie dell’esperimento albanese consente inoltre di far emergere chiaramente che il diritto, se non presidiato, diventa lettera morta. Con l’auspicio di dimostrare che la realizzazione di centri di trattenimento dentro e oltre il confine ci riguarda, tutte e tutti. Così come l’abolizione deve essere istanza diffusa. Di tutte e di tutti.

Photocredit social: Luca Rondi / Altreconomia

Fabrizio Coresi
Programme Expert Migration
Lorenzo Figoni
Policy Advisor

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