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Detenzione, giurisdizione e diritti nei sistemi migratori UE, cosa succede davvero?


di Eva Balunganti e Francesco Ferri


Nel marzo 2025 la Commissione Europea ha proposto un nuovo Regolamento Rimpatri. Tra le altre misure prospettate, desta particolare preoccupazione quella dei “return hubs” – centri costruiti nei paesi terzi, verso i quali trasferire coattivamente le persone migranti destinatarie delle misure di espulsione. In parallelo, l’Italia sta sperimentando il cosiddetto “modello Albania”, che prevede il trasferimento forzato  di migranti in centri situati sul territorio albanese ma sotto giurisdizione italiana. Si tratta di strategie simili con differenti modalità operative, entrambe con conseguenze molto gravi in termini di diritti umani. .

Il “modello Albania” ha avuto due fasi: la prima prevedeva il trasferimento di migranti provenienti da paesi di origine cosiddetti sicuri, intercettati in mare, per l’esame accelerato delle loro domande di asilo; è presto entrata in crisi per via della sua debole infrastruttura giuridica. La seconda fase, tuttora attiva, consiste nel trasferire in Albania persone già detenute nei CPR italiani, senza motivazioni trasparenti, senza adeguata tutela legale, e con uso di mezzi coercitivi.

Una differenza importante tra i due modelli riguarda la giurisdizione. Nel caso del “modello Albania”, l’Italia ha esteso formalmente la propria giurisdizione ai centri in Albania: questo, pur non evitando le violazioni, ha consentito l’attivazione di ricorsi legali presso i tribunali italiani, che hanno portato alla liberazione di molte persone e alla “crisi” del modello. Al contrario, i “return hubs” europei non prevedono una giurisdizione chiara da parte degli Stati membri né definiscono chi sia legalmente responsabile in caso di violazioni. Questo rende i centri proposti ancora più opachi e potenzialmente sottratti a ogni controllo giurisdizionale effettivo.

Anche se formalmente diversi, modello Albania e return hubs europei condividono la stessa logica: governare i corpi migranti attraverso la detenzione, la marginalizzazione e il ricorso a “spazi giuridici grigi”, in cui le tutele sono minime o assenti. Entrambi riducono l’accesso all’asilo, aumentano la detenzione, e svuotano di significato i diritti fondamentali.

Il bilancio dopo nove mesi di “modello Albania” è drammatico: violazioni sistematiche dei diritti, opacità radicale, detenzione generalizzata, frequenti atti di autoferimento da parte delle persone trattenute. Le convergenze tra modello italiano e proposta UE indicano un disegno comune per rendere strutturale la contrazione dei diritti. Fermare questo processo è una priorità politica e giuridica.

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