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Ma a te cosa viene in mente quando pensi all’Italia?

Forse pensi al mare cristallino delle isole o alle Dolomiti innevate.
Forse ti immagini il Colosseo al tramonto o il sapore del sugo che faceva tua nonna.
Magari pensi a Michelangelo, a Dante e al Rinascimento.
Oppure a una partita della Nazionale, a quella piazza che conosci così bene, a quel posto dove quel giorno sei stato o sei stata particolarmente felice. 

Come te, penso che un territorio non sia mai solo geografia. È voce, gesto, memoria. Penso che l’Italia che conosciamo, che viviamo – quella che ci emoziona – non è solo il risultato di un disegno su una mappa, ma è il frutto vivente delle storie di ogni persona che l’ha abitata, sognata, trasformata ieri come oggi. 

L’Italia che respiriamo tutti i giorni sa di una ricca storia e di tanti volti. Una fortuna incredibile quella di essere uno stivale galleggiante, disteso nel Mediterraneo come un ponte tra terre. E allora nei porti sono approdati i fenici con tutte le lettere dell’alfabeto, i greci carichi di filosofia, gli arabi con l’algebra e la poesia. Le navi bizantine scaricavano spezie e immagini dorate, quelle normanne portavano tecniche di costruzione e leggi nuove. Dal Brennero, poi, arrivarono maestranze con l’arte del vetro; dalla Francia entrarono trovatori che cantavano l’amor cortese. 

E allora il David di Michelangelo ha la perfezione greca e l’anima cristiana; Dante scrive in volgare ma cita Virgilio; Leonardo studia l’ottica araba e guarda i maestri fiamminghi per dipingerla. 

L’Italia è stata ed è bella perché incontra, mescola, accoglie e impara. Trasforma, rielabora e crea: crea qualcosa di nuovo e tutto suo.  

Quel giorno che decidemmo il futuro 

Un giorno d’inizio giugno del 1946, milioni di persone – eredi di questa storia stratificata – si misero in fila per scegliere che tipo di Paese volevano continuare a essere. Non era un voto qualunque. Era il primo voto libero dopo vent’anni di fascismo, e per molte, per tutte le donne di Italia, era il primo voto in assoluto. Perché circa ottanta anni fa, in Italia, le donne, che pure vivevano il paese e lo trasformavano giorno dopo giorno, erano persone invisibili. 

Ebbene, il referendum del 1946 tra monarchia e repubblica fu un momento fondativo che andò ben oltre la questione istituzionale – fu un atto di autodeterminazione collettiva, un Paese che scelse se stesso decidendo di contare le voci, tutte. 

A quasi ottant’anni da quel giorno, ci ritroviamo ancora a un bivio. Non è più la forma dello Stato a essere in discussione, ma la forma della cittadinanza stessa. 

Il potere di scegliere insieme 

Fatima studia medicina a Bologna, parla il dialetto emiliano e potrebbe essere la compagna di corso di tuo figlio, di tua nipote, del cugino della tua vicina di casa. Gli occhi di Fatima, pieni di rassicurazione ed empatia, domani potrebbero guardarci al di sopra di una mascherina verde, durante una visita medica. Ahmed, invece, gestisce il bar della tua via e conosce i nomi di tutti i clienti, le loro storie, i loro problemi e come preferiscono il cappuccino. Chen allena la squadra dei giovani del tuo quartiere e insegna che vincere non è tutto, che l’importante è giocare insieme. 

L’Italia è fatta dalle persone che la vivono. Oggi. Ogni giorno. Non solo da quelle che ci sono sempre state, ma da tutte quelle che ci sono. Che la scelgono, la cambiano, la fanno diventare quello che è. 

E allora, poter discutere e scegliere che forma vogliamo dare alla cittadinanza interroga profondamente il nostro senso di responsabilità e il nostro protagonismo: il potere di incidere in modo libero e aperto su chi siamo e chi vogliamo essere. 

Lo strumento a nostra disposizione è proprio il referendum. Se è vero che il termine referendum evoca un’immagine tecnica, giuridica, apparentemente neutra: una consultazione popolare, un quesito secco, una casella da barrare; nella realtà dei fatti il referendum è molto di più. È uno strumento sociale potente, un dispositivo che può rigenerare, amplificare la fiducia. Il referendum è un evento sociale e culturale. Ci consente un’opinione concreta attraverso la lente delle relazioni, delle emozioni collettive, della qualità del nostro vivere – che è, prima di tutto, qualità dei legami tra persone. 

Scegliere con un voto, definirsi come società  | ActionaAid

Il diritto di imparare insieme 

Da Pierre Bourdieu a Chantal Mouffe è stato tutto un dimostrare che le istituzioni non sono mai neutre. Ogni forma istituzionale incarna, riflette e riproduce rapporti di potere. Il referendum, in apparenza lo strumento più democratico, è soggetto anch’esso a questa logica. Ma può diventare, in determinati contesti, un momento di sospensione del potere, un’interruzione del flusso quotidiano della delega e della distanza. Un’occasione in cui la politica ritorna a essere polis, spazio condiviso. 

In diversi paesi democratici, dove la democrazia è cultura e soprattutto pratica condivisa, il referendum è uno strumento praticato. In Svizzera, ad esempio, i cittadini sono chiamati alle urne in media quattro volte all’anno per votare su temi che spaziano dall’ambiente al sistema pensionistico, dall’istruzione alla fiscalità. Non si tratta solo di scegliere: si tratta di apprendere, discutere, dialogare. In questa prospettiva è chiaro, quindi, come il referendum sia una vera e propria palestra relazionale: è in grado di rafforzare il capitale sociale, di alimentare fiducia tra le persone e le istituzioni, di generare uno stile aperto alla riflessione e al confronto.  

Come mostra il Democracy Index dell’Economist Intelligence Unit, i Paesi che utilizzano il referendum in modo sistematico e deliberativo hanno anche i più alti livelli di political efficacy, che indica il grado in cui un individuo percepisce di avere influenza sulla politica e di essere nelle condizioni di comprendere e partecipare attivamente al processo politico. In altre parole, il senso che la propria voce conta, che la partecipazione non è inutile. 

Il referendum irlandese del 2015 sulla legalizzazione del matrimonio tra persone dello stesso sesso fu esemplare in questo senso1. Mesi di campagne capillari precedettero il voto, periodo durante il quale migliaia di cittadini incontrarono vicini, amici, colleghi, per parlare non solo di diritti, ma di paure, empatia, memoria. Quella conversazione collettiva trasformò l’atto del voto in un’esperienza relazionale, in una forma di riconoscimento reciproco. L’Irlanda, paese a lungo dominato dal conservatorismo cattolico, scelse di raccontarsi una nuova storia. E lo fece collettivamente, guardandosi negli occhi. 

Cosa resta quando si usa il voto per manipolare la paura 

Certamente non sempre il referendum unisce. Talvolta, anzi, può diventare una trappola. Lo diventa quando viene manipolato, reso strumento di verticalizzazione del potere, non di distribuzione. Quando è utilizzato per scavalcare i corpi intermedi, i parlamenti, i dibattiti. Un esempio recente è quanto è avvenuto con il referendum sulla Brexit del 2016: formalmente regolare, ha prodotto uno degli eventi più polarizzanti nella storia recente del Regno Unito. Le analisi del King’s College e del Centre for the Study of Democracy hanno mostrato come il dibattito pubblico si sia trasformato in una macchina di semplificazione, sospetto e manipolazione. La campagna Leave ha costruito una narrazione fondata su false promesse poi smentite (ad esempio i supposti 350 milioni di sterline a settimana che il Regno Unito si diceva desse all’Unione Europea e che sarebbero potute essere utilizzate per il sistema sanitario britannico. La cifra non era affatto vera). Dopo il voto, i crimini d’odio sono aumentati del 41%. Tutto questo, non è un dettaglio. È la prova che un referendum, quando appunto strumentalizzato dal potere, può aprire fratture nella convivenza civile, alimentare xenofobia, delegittimare le istituzioni. Nel caso della Brexit, più che un esercizio di democrazia, il referendum è stato un plebiscito postmoderno, in cui la complessità del reale è stata ridotta a un’alternativa binaria, semplificata all’estremo e appunto manipolata. 

Il referendum che ci chiede chi vogliamo essere 

E quindi come distinguere un referendum che rafforza la democrazia da uno che la indebolisce? Ovviamente non è il quesito, ma la qualità del percorso che porta a rispondere a quel quesito. È la cura con cui si alimenta il confronto, la responsabilità con cui si facilita l’accesso alle informazioni, la capacità di includere le voci più fragili. La storia ci insegna che le decisioni politiche non sono mai soltanto razionali. Sono impregnate di paura, rabbia, speranza, orgoglio. Il referendum, allora, diventa il luogo, lo spazio e il tempo in cui queste emozioni sono incanalate o lasciate esprimere.  

E quindi, come dicevamo poco sopra, a quasi ottant’anni dal primo referendum libero svolto in Italia, ci ritroviamo ancora davanti a un incrocio. Chi può far parte della comunità in cui viviamo? Chi ha il diritto di dire noi? Il referendum sulla riforma della legge sulla cittadinanza, sostenuto dalla rete Dalla parte giusta della storia e da organizzazioni come ActionAid, parla esattamente di questo. Parla di ragazzi e ragazze che sono nati o cresciuti in Italia, che qui studiano, parlano, sognano, si innamorano. Ma che per la legge sono ancora invisibili.  

Di nuovo, il referendum non è mai solo una questione tecnica. È una domanda profonda, che attraversa le relazioni sociali, le emozioni, i legami tra generazioni. È un’occasione in cui la democrazia smette di essere una parola astratta e si dovrebbe trasformare in carne, voce, incontro.  

Nei comitati, nei dibattiti, nelle piazze e sui social avremmo dovuto e potuto confrontarci. Perché è nel confronto che si costruisce la legittimità collettiva, non solo nel momento del voto, ma nel dibattito che lo precede: nel coinvolgimento, nella consapevolezza, nella partecipazione. 

Eppure, nella realtà dei fatti, ci accingiamo al voto in un percorso silente, senza spazi e senza dibattiti. Dove addirittura si suggerisce, con il tatticismo del potere manipolatorio, di non andare a votare, di non assumersi le responsabilità di essere parte attiva del processo democratico. 

Tuttavia, nel riflettere insieme credo che possiamo convergere sul fatto che il referendum, quando ben costruito, è in realtà un atto politico di cura. Cura dei legami, del dissenso, delle ferite. È un invito a fermarsi, a riflettere, a decidere insieme. Ma perché questo accada, serve una democrazia che non sia solo forma, ma sostanza. 

E allora, cosa significa esercitare oggi un diritto democratico come il voto referendario? Cosa significa andare alle urne l’8 e il 9 giugno? Significa, ancora una volta, dire chi siamo. Dare voce a quell’identità plurale che è la nostra origine più autentica. Significa scegliere, insieme, quale paese vogliamo continuare a costruire. 

Votare oggi significa fare quello che altri hanno fatto nel 1946: aprire la democrazia, allargarla, renderla più giusta. 

Katia Scannavini
Co-Segretaria generale

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