Quando la vendetta prende il posto del diritto, non resta più civiltà
Ci sono parole che si evitano. Non perché siano sbagliate, ma perché una volta pronunciate non si può tornare indietro, perché fanno saltare la zona grigia e obbligano a una posizione. Nella Striscia di Gaza le persone uccise raggiungono cifre aberranti, cifre che crescono ogni giorno mentre la vita, in ogni sua forma, viene ridotta a detrito. L’acqua non è potabile, il pane è un ricordo, gli ospedali non esistono più, non ci sono anestetici, non ci sono incubatrici. Non ci sono vie di fuga.
Eppure, continuiamo a pesare le parole come se avessimo tempo. Chi lavora nel settore umanitario non ha bisogno di un dizionario per sapere cosa sta accadendo: lo vede, lo ascolta, lo riconosce nella fame, nella paura, nelle esplosioni che non lasciano tregua. L’annientamento di un popolo non si misura solo nel numero delle vittime. Lo si vede nella distruzione sistematica delle condizioni di vita, nella cancellazione della memoria, nel diniego stesso dell’esistenza.
Quello che accade non è semplicemente un conflitto. La disumanizzazione costante del popolo palestinese nel discorso pubblico e istituzionale, il bombardamento ripetuto di infrastrutture essenziali alla vita, il blocco degli aiuti umanitari come strumento deliberato di strangolamento, l’intenzione dichiarata, da parte di esponenti israeliani, di spazzare via Gaza sono i tratti inequivocabili di una dinamica genocidaria.
Tutto questo avviene nella consapevolezza di tutti e tutte, eppure si rifugge di nominare ciò che accade. Non perché non si sappia, ma perché dirlo cambia tutto: cambia il discorso, cambia il perimetro delle responsabilità, cambia il nostro posto nella storia
Quindi se non lo chiamiamo genocidio, smette di esserlo?
O smettiamo solo di sentirci coinvolti?
Se non lo chiamiamo genocidio, non stiamo proteggendo la precisione del linguaggio, stiamo proteggendo la nostra distanza.

L’economia che rende possibile il disumano
Il rapporto ufficiale dell’ONU, firmato da Francesca Albanese, relatrice speciale per i diritti umani nei Territori Palestinesi Occupati, è chiaro, afferma che ci sono prove ragionevoli che Israele stia commettendo atti di genocidio contro i palestinesi di Gaza. Il rapporto non si limita a denunciare lo Stato di Israele, ma allarga lo sguardo: cita aziende, multinazionali che forniscono tecnologia militare, bulldozer, software di sorveglianza. Nomina le complicità indirette, le filiere globali che rendono possibile ogni annientamento.
Abbiamo letto ogni riga del rapporto e ancora una volta ci siamo resi conto che nessuno di noi ne è fuori. Nessuna organizzazione internazionale può dire di esserlo. Le nostre infrastrutture digitali, i sistemi su cui lavoriamo, gli strumenti che utilizziamo per gestire i dati, per raccogliere fondi, per comunicare, si appoggiano su piattaforme sviluppate da aziende che compaiono, a vario titolo, in quella lista. Siamo impigliate in un sistema che rende difficile, a volte impossibile, separare il gesto quotidiano dalla struttura di potere che lo sostiene. Non siamo estranee a queste contraddizioni: le abitiamo, le affrontiamo. Non si è mai puri, in un mondo costruito su interdipendenze. Eppure, proprio per questo, è urgente raccontarlo. Non per assolverci, ma per aprire uno spazio diverso: quello della responsabilità condivisa, della consapevolezza e della partecipazione attiva e fattiva a una costruzione culturale che metta in discussione le fondamenta di un sistema disumano. Sappiamo che non possiamo farcela da soli, che abbiamo bisogno di altre, altri, per disegnare nuove infrastrutture. Per reimmaginare il possibile.
Nel nostro lavoro quotidiano monitoriamo, verifichiamo, interroghiamo e chiediamo conto. A tante aziende chiediamo cosa sono disposte a cambiare. Sappiamo che le risposte non saranno mai perfette, ma ciò non ci dissuade nel continuare a porre domande. Sappiamo che non possiamo rompere ogni relazione, ma possiamo decidere di non restare in silenzio.
Gaza non è un’eccezione
Il massacro del 7 ottobre 2023 da parte di Hamas, che ha comportato l’uccisione deliberata di civili israeliani, costituisce un grave, atroce e inaccettabile crimine di guerra. Gli autori devono essere perseguiti penalmente, in sedi competenti e indipendenti. Non si può lasciare che la vendetta prenda il posto del diritto. Quando questo avviene non resta più civiltà, ma solo controllo e distruzione.
La distruzione sistematica delle infrastrutture, la fame come arma, il blocco degli aiuti e l’uccisione di decine di migliaia di persone, tra cui una percentuale altissima di bambini, configurano una violazione del principio di umanità. Nei territori palestinesi si è superato ogni limite, semmai fosse possibile accettare di per sé la guerra.
Mentre la Striscia di Gaza brucia e la vita è usurpata in ogni sua forma, ciò che accade in Cisgiordania scivola in un’ombra silenziosa. Da gennaio ad oggi sono stati demoliti quasi 800 edifici di proprietà palestinese, provocando lo sfollamento di centinaia di persone. Quasi 3.000 persone sono state costrette ad abbandonare le proprie terre a causa della violenza dei coloni e delle restrizioni imposte da Israele. E allora guardare alla Cisgiordania non significa distogliere lo sguardo da Gaza. Significa riconoscere che Gaza e Cisgiordania sono due fronti dello stesso progetto: fare in modo che i palestinesi non possano più esistere, né qui né altrove.
Attraverso le reti e i partner locali lavoriamo da anni per supportare queste terre martoriate. Distribuiamo pasti, acqua, kit igienici, supporto psicologico, presidi di emergenza. Garantiamo parti sicuri, cure ginecologiche, sostegno a donne sopravvissute a violenza. Abbiamo raggiunto, nel solo 2025, quasi 47.000 persone. Lo abbiamo fatto con mezzi limitati, in condizioni impossibili, mentre i convogli umanitari venivano respinti o colpiti.
Ma il nostro lavoro, l’urgenza che ActionAid sente sempre in ogni contesto, va certamente ben oltre. Se intorno cresce un progetto di cancellazione, allora non è più sufficiente soccorrere. Bisogna prendere parola. Per questo oggi chiediamo: il cessate il fuoco immediato e permanente; l’accesso umanitario pieno, sicuro e stabile; il fine della vendita di armi e tecnologie a doppio uso a Israele; il riconoscimento dello Stato di Palestina da parte del Governo italiano; la protezione della società civile palestinese e delle organizzazioni umanitarie.
L’equidistanza, di fronte a un genocidio, non è equilibrio: è complicità. E la neutralità non è più un rifugio etico, ma una posizione politica. Nei nostri comportamenti si gioca la tenuta dell’umanità che vogliamo essere.