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Ottavia Spaggiari

Giornalista

Diritti delle Donne

Ustioni e attacchi di acido in Nepal

Storia di Sita

Quando Sita era arrivata a Kathmandu, in cerca di un lavoro per mantenere la propria famiglia, non avrebbe mai potuto immaginare quello che le sarebbe successo di lì a pochi mesi.

Originaria di un villaggio nel distretto di Makwanpur, una zona rurale nel sud del Nepal, per Sita la capitale rappresentava la promessa di un futuro di indipendenza e riscatto. A Kathmandu aveva trovato lavoro in una fabbrica di tappeti. Riusciva a guadagnare abbastanza per sé e a mandare soldi a casa, ai suoi genitori e ai fratelli. Quella serenità però era durata poco.

Un uomo incontrato in fabbrica aveva iniziato a perseguitarla. Inizialmente diceva di essersi innamorato di lei ma le sue attenzioni erano diventate sempre più insistenti. Dopo che Sita aveva rifiutato le sue ripetute richieste di matrimonio, l’uomo l’aveva rapita. Un giorno le aveva offerto dei dolciumi e Sita aveva accettato senza sospettare nulla. Poco dopo aveva perso conoscenza.

Si era risvegliata in una stanza buia. Lì erano iniziati gli abusi fisici e psicologici. “Ho vissuto da prigioniera per cinque mesi,” racconta Sita ad ActionAid.

“Avevo le braccia e la gambe quasi sempre legate.” Completamente isolata e sottoposta ad una violenza quotidiana, Sita aveva cercato di scappare più volte ma lui era sempre riuscito a fermarla. Dopo ogni fuga mancata l’aveva picchiata più forte. Gli abusi erano culminati con il tentativo di bruciarla viva. Un giorno Sita non aveva fatto in tempo a reagire che l’uomo le aveva lanciato un fiammifero addosso. Le fiamme avevano attecchito sui vestiti bagnati di cherosene. Avrebbe trascorso gli anni successivi a cercare di ricostruire la propria vita dopo quell’ennesimo atto di violenza estrema.

Ustioni e attacchi di acido in Nepal

Le ustioni e gli attacchi con l’acido sono un fenomeno nuovo ma sempre più frequente in Nepal.

Secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità le ustioni (sia accidentali che intenzionali) sono la seconda lesione più comune nelle aree rurali del Paese e rappresentano il 5% delle disabilità ma l’incidenza reale di questi attacchi è difficile da stimare. La maggior parte delle volte questi crimini non sono denunciati per paura di ritorsioni o mancanza di fiducia nel sistema giudiziario. Il dolore devastante delle ustioni impedisce alle sopravvissute di fornire un racconto dei fatti alle autorità e, molto spesso, il controllo sulla narrazione dell’accaduto resta in mano all’autore della violenza stessa. “Chi porta la donna in ospedale è proprio chi l’ha attaccata,” spiega Nisha Lama Karki, Specialista Women’s Rights per ActionAid Nepal. “Il quadro legale per punire questo tipo di abusi è molto debole.”

Subito dopo l’attacco, sentendo le urla disperate di Sita, alcune persone dalle abitazioni vicine erano accorse per vedere cosa stesse succedendo. L’uomo aveva presto convinto i vicini che si era trattato di un incidente domestico, un’ustione mentre Sita stava cucinando. Ai loro occhi si era persino dimostrato premuroso: aveva subito portato Sita in ospedale. Gli abusi e le minacce erano continuati anche lì. Solo quando Sita era stata di nuovo in grado di parlare e gli aveva detto che avrebbe sporto denuncia, l’uomo era scomparso. Di punto in bianco aveva interrotto ogni rapporto. Se Sita era finalmente libera, si trovava completamente sola ad affrontare una lunga serie di interventi chirurgici, terapie e riabilitazione. L’uomo che le aveva devastato la vita non avrebbe affrontato nessuna conseguenza legale. Un fenomeno molto comune nel Paese.

Nel 2020 il governo nepalese ha adottato un nuovo quadro legislativo nel tentativo di combattere gli attacchi con l’acido e le ustioni. Frutto di una lunga campagna sostenuta dalle attiviste del movimento contro la violenza di genere, la nuova legge punta a regolamentare le vendite dell’acido e inasprire le pene per i criminali. I responsabili di un attacco possono essere condannati fino a vent’anni di detenzione.

La legge però rimane spesso inapplicata. “Ci sono molte scappatoie nel sistema penale,” spiega Karki. “Non è costruito intorno alle sopravvissute.” Il fatto, ad esempio, che i tempi per sporgere denuncia siano brevi è incompatibile con la realtà di chi sopravvive ad un attacco simile e si trova in uno stato di trauma fisico e psicologico profondissimo. Parlare dell’accaduto richiede tempo.

Inoltre, benché basso costo e la facile reperibilità di acidi e cherosene abbiano contribuito alla diffusione di questo tipo di crimini e controllarne la vendita possa quindi essere utile, secondo Karki, alla base di questi atti vi è lo stesso terreno fertile che permette a qualsiasi forma di violenza di genere di prosperare: una forte cultura patriarcale da cui dipende una disuguaglianza di genere sistemica.

Chhaupadi: quando avere le mestruazioni comporta un esilio

Nell’ultima classifica della Banca Mondiale sulla parità di genere, il Nepal si trova al 96esimo posto su 146 Paesi (l’Italia è al 63esimo, registrando una delle performance peggiori nell’Unione Europea. L’Afghanistan è all’ultimo posto.) Oltre ai matrimoni minorili e all’alto tasso di mortalità materna, tra le numerose e più violente discriminazioni affrontate dalle donne e dalle bambine in Nepal vi è anche la pratica dello chhaupadi, un esilio forzato a cui vengono costrette le donne durante il ciclo mestruale e subito dopo il parto. Benché questa pratica sia vietata per legge dal 2005, rimane diffusa in diverse parti del Paese dove, per settimane intere, le donne considerate impure vengono isolate dalla vita pubblica e relegate in capanne o stalle per gli animali, costrette a vivere in condizioni igienico-sanitarie fortemente a rischio.

La pandemia e la crisi socio-economica che ne è derivata non hanno fatto altro che peggiorare la situazione. L’85% dei lavoratori domestici, tra cui moltissime donne, sono rimasti senza lavoro e senza una rete di sostegno. Se la crisi economica ha privato moltissime donne dell’indipendenza finanziaria, acuendo il rischio di violenza economica, come in molti altri Paesi, le misure di lockdown, necessarie per limitare i contagi, hanno costretto chi era già esposta alle violenze del proprio partner ad una convivenza ancora più stretta e ad abusi sempre più frequenti.

Secondo le Nazioni Unite, in Nepal 1 donna su 2 ha subito qualche forma di violenza nella sua vita e 3 donne su 10 hanno subito violenza fisica.

Come hanno notato i giornalisti Ayusha Regmi, Roshan Sedhai and Ishita Shahi sul giornale indipendente RecordNepal, gli stessi toni in cui è stato descritto il primo attacco con l’acido documentato storicamente indicano una cultura profondamente patriarcale. In Modern Nepal: A political history, uno dei principali volumi sulla storia del Paese, pubblicato negli anni novanta, l’autore Rishikesh Shaha ricorda infatti come, alla fine dell’ottocento la moglie dell’allora primo ministro Bir Shumsher avesse bruciato gli occhi dell’amante del marito con l’arsenico mentre questa dormiva. “L’acido le lasciò una cicatrice permanente sul bellissimo volto,” scrive Shaha, senza soffermarsi però sui danni fisici a lungo termine di questo attacco, come se la perdita della bellezza rappresentasse l’unica conseguenza di una violenza così efferata. “Prima di tutto, l’acido è una sostanza altamente corrosiva, che brucia la pelle e causa un danno permanente non solo all’apparenza,” scrivono i giornalisti, “ma anche al funzionamento degli organi vitali, spesso risultando nella perdita della vista e conducendo persino alla morte.”

La stigmatizzazione delle sopravvissute

Eppure, ottenere assistenza, cure e sostegno è difficile per le donne sopravvissute ad attacchi con l’acido e ustioni. In seguito ad una decisione della Corte Suprema nepalese del 2017, lo stato dovrebbe offrire alle sopravvissute assistenza medica e risorse economiche per affrontare il periodo di recupero, ma ancora oggi questo avviene raramente, soprattutto nelle aree rurali. Fuori dalla valle di Kathmandu i reparti ustionati mancano di personale qualificato e di attrezzature mediche adeguate. Inoltre le donne sono spesso stigmatizzate dalle loro stesse famiglie e, invece di essere aiutate in un momento di trauma estremo, si ritrovano sole.

Qualsiasi cosa accada ad una donna o a una ragazza è colpa sua, e qualsiasi cosa accada ad un uomo è comunque colpa della donna.” Spiega Karki. “Anche nei casi di violenza domestica, alla moglie viene chiesto, perché ti metti contro a tuo marito? Si tratta di pratiche culturali difficili da sradicare senza un sistema legale efficace e una forte campagna di sensibilizzazione.”

Nonostante il dolore fisico e il trauma piscologico, per Sita la cosa più dura dopo il suo attacco era stata la solitudine, una condanna sociale e a lungo termine, come se fosse stata lei stessa la responsabile di quell’atto di violenza. “La discriminazione è state la cosa più difficile,” racconta. “Mi ha privata della mia libertà.”

Oltre ad un isolamento sociale forzato, la stigmatizzazione delle sopravvissute si traduce anche in profonde difficoltà economiche. Chi ha subito un attacco con l’acido fatica a trovare lavoro. “Mi ricordo l’esperienza amarissima di una signora che aveva una piccola bottega dove vendeva cibo e tè,” ricorda Karki. “Un attacco con l’acido le aveva lasciato una cicatrice sulla mano e i clienti non volevano più prendere cibo dalle sue mani.”

Karki sottolinea come la privazione dell’indipendenza economica rappresenti un ostacolo enorme per le sopravvissute. “Essere sicure finanziariamente è un aspetto cruciale,” continua Karki. “È ciò che ti dà il potere di prendere le tue decisioni.”

Il lavoro di ActionAid sul campo

È proprio per contrastare lo stigma e tutte le privazioni sociali ed economiche che da esso derivano che, insieme al partner local Burn Violence Survivors Nepal (BVS), un’organizzazione che offre sostegno alle sopravvissute agli attacchi con l’acido e alle ustioni, ActionAid ha sviluppato un programma di azione volto alla sensibilizzazione dei membri della comunità e della magistratura.  “È fondamentale amplificare la voce delle sopravvissute, informarle sui loro diritti e portare avanti un lavoro di prevenzione e di advocacy,” spiega Karki. Il programma inoltre aiuta le donne ad accedere a servizi legali e alle terapie riabilitative a cui altrimenti non avrebbero accesso.

È grazie a BVS e ad ActionAid che Sita è riuscita a sostenere le spese per le operazioni chirurgiche, le cure, la fisioterapia e ad avere accesso ad un percorso di counseling e consapevolezza legale rispetto ai propri diritti che le ha offerto informazioni chiave.

“Adesso so che ho gli stessi diritti degli altri e merito di vivere in una società che non mi discrimina,” spiega Sita.

Per Sita la via del recupero è stata lunghissima. Per anni ha vissuto in un rifugio, condividendo ogni spazio con altre donne in situazioni di difficoltà. Oggi, dopo sette anni, gli interventi chirurgici e i trattamenti medici non sono ancora terminati. Sita è ancora in fase di recupero fisico ma adesso

ha una stanza tutta per sé e un lavoro in un’associazione che si occupa di cura e diritti degli animali domestici. Ha riacquistato una delle cose che più le stavano a cuore: la propria autonomia. Quando le si chiede cosa la renda più orgogliosa della sua vita attuale, Sita non ha dubbi. “Mia madre aveva paura che, per via dell’incidente e del mio aspetto fisico, non sarei riuscita a fare molto nella vita,” ricorda. “Tutti pensavano che non sarei mai stata felice. Invece sono in grado di fare tutto da sola e sto anche facendo felice mia madre.”

 

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Illustrazioni di Gianluca Costantini

Biografia di Ottavia Spaggiari

È una giornalista freelance specializzata in long-form e inchieste internazionali. I suoi articoli sono apparsi, tra gli altri, su New Yorker, Guardian, Slate, Al Jazeera e la sua inchiesta narrativa sull’impunità dei trafficanti di esseri umani in Italia è stata finalista allo European Press Prize 2021. È stata Investigative Fellow alla Columbia Journalism School e il suo lavoro è stato sostenuto da alcuni dei principali grant di giornalismo tra cui lo European Journalism Centre, il Brown Institute for Media Innovation e l’International Women’s Media Foundation. In passato, ha lavorato per CNN, US Press Freedom Tracker e, in Italia, per Vita. Ha conseguito un Master in giornalismo politico e affari internazionali alla Columbia Journalism School, dove è stata San Paolo scholar.

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