Vai al contenuto

Quasi due anni dall’inizio della guerra a Gaza, non vogliamo concentrarci su numeri, statistiche o rapporti. 
Vogliamo parlare delle persone che ogni giorno lottano, resistono, alzano la voce e continuano a credere in un futuro diverso per le migliaia di famiglie palestinesi che ancora oggi sopportano l’orrore della violenza e della fame. 

Riham | ActionaAid

Abbiamo intervistato Riham di ActionAid Palestina, per farci raccontare la vita quotidiana e la resilienza con cui lo staff sul posto continua a fare tutto il possibile.  


Il mio messaggio per voi è di continuare a mostrare solidarietà e sostegno. La vostra solidarietà non è solo uno slogan, non è solo un post o una protesta. È un’ancora di salvezza, per ogni bambino di Gaza che nel cielo vede droni al posto degli aquiloni, per ogni madre che ricostruisce la propria casa sulle rovine di ieri, per ogni padre che porta sulle spalle il peso delle perdite subite ma che sceglie ancora di sperare – la vostra voce dice a tutti loro: non vi abbiamo dimenticati. 

La battaglia per la Palestina non è solo una questione politica o di confini; è una battaglia che riguarda la dignità, la giustizia e il diritto delle persone a vivere una vita libera. Ogni volta che parlate, marciate, scrivete o recitate una preghiera, rompete il silenzio di cui l’oppressione si nutre. Provate che l’umanità non ci ha abbandonato. 

Non sottovalutate la forza della vostra presa di posizione. La storia è stata scritta da chi ha rifiutato di guardare altrove, da quelli che ricercano la verità quando le bugie prendono il sopravvento.  

Siate incrollabili. Siate forti. Siate compassionevoli. Perché ogni atto di solidarietà – grande o piccolo – costruisce un ponte di speranza solido abbastanza da resistere a muri e a guerre. 

La Palestina non chiede carità. La Palestina chiede giustizia. E insieme, le nostre voci unite sono l’inizio della libertà. 

La mia infanzia è stata uguale all’infanzia di tutti i bambini palestinesi che vivono nei campi profughi in Cisgiordania, senza parchi giochi, dove strade strette e muri pericolanti diventano gli unici posti dove correre e sognare.  Le nostre risate risuonano tra le case affollate fatte di lamiera e cemento, ma sono risate cariche di resilienza, plasmate dalle storie di perdite e da anni di esilio. 

Cresciamo troppo in fretta, imparando il linguaggio dei posti di blocco, dei coprifuoco e della sopravvivenza, prima ancora di imparare l’innocenza del gioco. Eppure, nei nostri occhi brilla una scintilla viva: la convinzione che i bambini meritano di più che una vita definita da muri. 

Per i bambini di Gaza, che hanno vissuto sotto un cielo segnato da anni di guerra, immagino e desidero un futuro migliore: se il mondo agirà e spezzerà il silenzio, ponendo fine alla guerra e fermando le loro sofferenze, allora il futuro sarà diverso, un futuro dove quella scintilla potrà finalmente brillare con tutta la sua forza: aule piene di luce invece che di macerie, scuole dove l’unico rumore sarà il suono della campanella e non delle bombe; campi dove potranno correre a braccia aperte, e non pieni di paura; e un domani che non sarà segnato da sfollamenti ma da libertà, dignità e pace. 

Dovremmo imparare a scrivere i nostri nomi, disegnare fiori e rincorrere aquiloni nel cielo. Invece, i bambini di Gaza imparano i suoni della guerra, la differenza tra un drone e un missile, il silenzio prima di un’esplosione, la sensazione di paura che preme nel petto, durante le notti insonni. 

I bambini non hanno scelto questa vita, non hanno scelto di perdere la loro casa, la scuola, gli amici, i genitori. Vogliono quello che ogni bambino merita: di svegliarsi al sicuro, di giocare liberamente, di sognare senza paura. 

A voi tutti, al mondo intero, chiediamo una cosa: non voltatevi dall’altra parte. Il silenzio ci ferisce come le bombe. Non siamo numeri. Ogni giorno che la guerra va avanti, un pezzetto del nostro futuro svanisce. 

Fate subito qualcosa. Alzate la vostra voce, chiedete la fine della guerra, chiedete che ci sia permesso di vivere. State al nostro fianco perché siamo ancora qui, aggrappati alla speranza, aspettando che il mondo capisca che anche noi siamo esseri umani e che meritiamo di vivere. 

Tutto quello che succede a Gaza è doloroso e indescrivibile: bombardamenti, uccisioni, sfollamenti, fame, amputazioni su bambini, perdita di amici. Oggi, la cosa che mi fa più male è la fame. La fame non è solo la mancanza di cibo: è una guerra lenta e deliberata contro la vita stessa. Ho pianto quando ho saputo che dei miei colleghi e le loro famiglie erano costretti a sopravvivere con un solo pezzo di pane da condividere in tanti. Le mie colleghe, che sono madri, mi hanno raccontato di andare a dormire a stomaco vuoto per far mangiare i loro figli, e i bambini piangono durante la notte non per la paura delle bombe, ma per il dolore più acuto della fame che consuma i loro piccoli corpi.  

I mercati sono vuoti, gli aiuti bloccati, e persino il cibo più semplice è diventato un sogno lontano. La fame priva le persone non solo della forza, ma anche della dignità, costringendole a lottare per sopravvivere in silenzio, mentre il mondo osserva. Parlare della fame a Gaza significa parlare di una crudeltà costruita, di una ferita che diventa ogni giorno più profonda, eppure viene affrontata con resilienza, mentre la gente si aggrappa alla speranza che il mondo agirà prima che un’intera generazione svanisca.  

Non è facile lavorare e comunicare dentro Gaza, dove gli operatori umanitari sono vere e proprie ancore di salvezza, che portano speranza nel caos totale, nonostante il blocco degli aiuti e i bombardamenti incessanti. Con le linee di comunicazione interrotte e la corrente spesso non disponibile, loro contano sui deboli segnali telefonici, messaggi scritti a mano, semplici reti umane che si coordinano tra loro per sapere dove c’è più bisogno di cibo, acqua o medicine. La distribuzione non è mai semplice con il blocco totale che è stato imposto su Gaza, che non permette agli aiuti umanitari di entrare nella Striscia.  

Questa situazione spinge gli operatori umanitari a procurarsi beni dai fornitori locali, cosa estremamente difficile poiché i camion vengono bloccati alle frontiere, le provviste sono limitate e ogni consegna è minacciata dal rischio di bombardamenti. Ancora, i nostri colleghi e partner agiscono con urgenza e coraggio, organizzando volontari comunitari, allestendo punti di distribuzione e assicurandosi che i più vulnerabili – anziani, donne, bambini e malati – vengano raggiunti per primi.  

Sopravvivere sotto il blocco significa inventare soluzioni dove non dovrebbero servire, trasformare la scarsità in resilienza e andare avanti con la ferma convinzione che anche un solo pacco di cibo o una bottiglia d’acqua pulita possano significare sopravvivenza, dignità e la prova che l’umanità non ha abbandonato Gaza. 

Photocredit header: Reuters
Photocredit social: Mahmoud Issa/Reuters

In primo piano

Dottor Mohammed Salha parla con un altro medico dell'ospedale Al-Awda
Storia

Dr. Mohammed Salha

Molte persone ammassate in cerca di cibo. Sullo sfondo macerie e distruzione.
Blog

Se non lo chiamiamo genocidio, smette di esserlo? 

Ritratto di Nigus Simane, Head of Fundraising di ActionAid Etiopia.
Storia

Nigus

Storia

Randa

Pubblicazione

Segie

Storia

Jui

Storia

Daniel

Direttiva UE imprese | ActionAid
Blog

Direttiva UE imprese

Piano Mattei | ActionAid
Blog

Piano Mattei

Da Milano al Bangladesh insieme ai nostri sostenitori speciali | ActionAid
Blog

Da Milano al Bangladesh insieme ai nostri sostenitori speciali

Impresa italiana e land grabbing in Madagascar  | ActionAid
Blog

Impresa italiana e land grabbing in Madagascar 

Istanza contro la società italiana JTF Tozzi Green | ActionAid
Blog

Istanza contro la società italiana JTF Tozzi Green