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Made in Italy sì, ma senza esagerare

Cosa dice la prima analisi politica del voto sulla direttiva sostenibilità delle imprese. 


Non di rado ci capita di leggere o ascoltare notizie riguardanti persone che lavorano in condizioni disumane o di danni ambientali arrecati da grandi aziende. Di casi drammatici purtroppo ce ne sono moltissimi. Il 2023 è stato il decimo anniversario della tragedia del Rana Plaza, come ricordato nel nostro blog. Esistono tuttavia migliaia di casi in giro per il mondo, alcuni documentati a fondo, altri (con buona probabilità la maggioranza) di cui probabilmente non verremo mai a conoscenza.  

Non sono pochi, tuttavia, i casi che avvengono a pochi chilometri dalle nostre città e che potremmo contribuire ad evitare.  

l’1 di giugno il Parlamento Europeo in seduta plenaria ha approvato un testo importante per la tutela dei diritti di lavoratori e lavoratrici, dell’ambiente ed anche per dare a consumatori e consumatrici qualche garanzia in più che i prodotti ed i servizi che acquistiamo non stiano violando diritti o provocando irreparabili danni ambientali e sociali. È bene chiarire che la direttiva non è ancora stata approvata, ma il voto del 31 maggio scorso rappresenta un passaggio fondamentale.  

Ma di cosa parla il testo? Nella proposta si chiede alle imprese di dotarsi di un sistema di rilevazione dei rischi di violazione dei diritti umani e ambientali lungo la loro catena del valore. Si chiede cioè, alle (grandi, almeno per adesso,) imprese di disegnare e rendere operativo un meccanismo di dovuta diligenza o due diligence dall’inglese, che gli permetta di verificare in ogni momento ed in ogni punto della catena del valore la presenza di rischi di violazione di diritti umani o ambientali e, eventualmente, intervenire per sanare la situazione. 

È necessario tornare su un punto prima di proseguire. Spesso, quando si parla di filiere globali del valore ci immaginiamo persone lavorando materie prime in posti lontanissimi da casa nostra. Questa immagine, però, non è sempre veritiera. Le c.d. catene del valore difatti (value chain dall’inglese) sono l’insieme delle attività interconnesse che un’azienda utilizza per creare un vantaggio competitivo. In un paese come l’Italia, fortemente esportatore (si vedano dati Banca d’Italia e osservatorio mercati esteri del MAECI), l’idea che quado si parla di una global value chain si faccia esclusivamente riferimento ad un paese remoto, la si può persino considerare fuorviante. Molte aziende italiane contribuiscono a catene del valore la cui origine è situata in un altro paese. Basti notare che Germania, Stati Uniti, Francia e Spagna, sono i principali paesi di destinazione delle esportazioni italiane al dicembre 2021. 

Questo vuol dire che, chiedere ad una grande azienda di dotarsi di uno strumento come quello della Due diligence può voler dire tutelare tutte le persone ed i territori lungo tutta la filiera, anche quelle che lavorano in Italia ed il nostro territorio. La direttiva nel suo percorso di approvazione potrebbe dunque contribuire a tutelare il nostro export, rendendolo più sostenibile e, in alcuni casi, scaricando i costi vivi all’estero. Anche questo dovrebbe rientrare nell’idea di Made in Italy. 

Una ricerca di OXFAM del 2021, ad esempio, documenta un caso italiano molto interessante, quello della filiera del vino acquistato dal monopolio svedese, che potrebbe rientrare in questo contesto.  

Eppure, osservando il risultato del voto in plenaria del 31 maggio, l’impressione è che l’Italia non creda molto a questo percorso, cosa che fa pensare che quello che viene definito come Made in Italy dal nostro governo, altro non sia che un esercizio retorico di poca o nessuna efficacia concreta.  

Ma guardiamo brevemente al voto.  

I parlamentari italiani che siedono al Parlamento Europeo sono 76. Di questi, il 31 maggio scorso, 62 erano presenti. Dei presenti, il 55% (34 voti) ha sostenuto il no, mentre il 45% (28) ha votato per il sì. 

Se analizziamo brevemente la composizione degli assenti, il risultato è ancora peggiore.  

Su 14 assenti: 

  • 2 appartenevano all’ECR, conservatori e riformisti europei, ovverosia il gruppo a cui afferisce Fratelli d’Italia, gruppo che ha votato compattamente per il no; 
  • 6 assenti per il Partito Popolare Europeo a cui afferisce Forza Italia, tutti gli italiani, ad eccezione di uno, hanno votato per il no; 
  • altri 2 assenti appartengono al gruppo Identità e Democrazia, gruppo di riferimento della Lega. Anche quest’ultimo gruppo ha compattamente sostenuto il no. 
  • 1 assente tra gli indipendenti. Si tratta di una parlamentare eletta in aerea lega che si suppone avrebbe votato per il no;
  • I 3 restanti appartengono rispettivamente 1 ai 5stelle e 2 al partito democratico del gruppo dei socialisti europei che, sempre considerando la tendenza de gruppo, in questo caso avrebbero votato sì.

Concludendo, possiamo dire che il 60% dei parlamentari italiani presenti al Parlamento Europeo sono contrari ad una direttiva che potrebbe portare benefici alle aziende italiane e favorire il percorso di sostenibilità delle stesse, migliorando le garanzie di lavoratori e lavoratrici, nonché le potenziali ricadute negative sull’ambiente circostante.  

Si tratta, come brevemente osservato, degli stessi partiti che rappresentano oggi la maggioranza di governo in Italia e che hanno voluto un ministero del Made in Italy. Partiti che però, in Europa, esprimono posizioni opposte, persino diverse da quelle espresse da Confindustria attraverso Business Europe (canale di rappresentanza europea di Confindustria ed altre associazioni di categoria europee), quelle stesse aziende che, secondo la Premier Giorgia Meloni, non andrebbero disturbate 

Insomma, un Made in Italy che in Europa è più vicino alle posizioni espresse da alcune lobby straniere che alle aziende italiane.  

Made in Italy sì, dunque, ma fino ad un certo punto.  

L’appello di Impresa 2030

 

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